La pratica spirituale emerge spontaneamente dal praticante

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La pratica è qualcosa che deve emergere, che accade. Nessuno fa la pratica: nessuno la decide. Oppure direi meglio: la subisce, in qualche modo.
Io questa cosa l’ho imparata nell’insegnare meditazione. Dieci anni fa andavo a tenere per esempio un seminario e avevo in mente tutta la scaletta delle cose che avrei proposto ai partecipanti: prima facciamo questo, poi faccio fare loro quest’altra cosa e poi quest’altra cosa ancora, ecc.
E c’era anche una volontà di serietà in tutto ciò: mi chiamano a fare una cosa e io la voglio fare bene, voglio portare una proposta che abbia un senso e non una roba sgangherata.
Ora invece la situazione è molto cambiata. Mi verrebbe da dire: uno più si innamora della pratica e più ama questo stare nel non sapere niente, nell’assenza di alcun progetto. E allora non c’è più uno che con la sua scaletta dice ad altre persone: farete questo o quest’altro. Ma c’è invece una pratica che emerge dalla situazione, cioè da quello che c’è, dalle persone, dal loro modo di sedere, di guardare, di muoversi, da tutto ciò che di invisibile alla mente, indicibile e misterioso è presente, dall’atmosfera di cui è fatta in quel momento la sala.

Quell’atmosfera fa emergere una certa pratica. E la fa emergere nella misura nella quale l’insegnante non sa niente, sta lì nudo, senza nessun progetto.

Mi sembra che così sia una pratica estremamente umana: cioè lì si è tutti, senza saperlo, a co-crearla. L’insegnante è solo un canale. Meno è presente il suo voler portare una pratica, più la pratica è autentica. Perché ti conduce dove non sai, dove nessuno in quella sala sa.

Gianfranco Bertagni

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